È sotto gli occhi di tutti quanto successo nella biblioteca di via Zamboni n. 36 a Bologna. In questi giorni abbiamo imparato a conoscerla, riconoscerla e diffonderla oltre Bologna semplicemente dicendo “il 36”. Sì perché quella biblioteca pubblica (è bene ricordarlo), chi ha esperienze cittadine bolognesi la conosce come “il 36”: “ci vediamo al 36”, “andiamo al 36”, “sono al 36”. Ma, ora, dopo la violenta irruzione al 36 da parte dello Stato a suon di manganellate, denunce e arresti, quel numero ha assunto un significato nuovo, che porta dentro di sé tutta la sua carica di lotta e rivendicazione.
Un breve incipit. Il 36 di via Zamboni, la biblioteca di discipline umanistiche dell’Università di Bologna, è sempre stato un luogo frequentato anche da chi non studia a Bologna, da chi non è, o non è più, uno studente universitario, o da chi frequenta altre facoltà. In quella biblioteca – ma anche fuori quelle mura – c’è sempre stata una socialità attiva e costruttiva. Certo, come in tutti i contesti sociali, le soggettività sono diverse e si incontrano e scontrano, così, come ovunque eterogenee individualità si ritrovano a frequentare lo stesso luogo. Perché al 36 dunque non dovrebbe essere così? Quel luogo è talmente includente da non sbarrare le porte ai secondi e terzi della società, a chi le dinamiche economiche e politiche ha relegato a diventare carne da macello utile agli scopi dell’arricchimento dei padroni del mondo.
A ragione di ciò, con tutta evidenza, si manifestano le tesi di coloro che rispetto all’istallazione dei tornelli trovano la soluzione a quella che gli stessi chiamano “sicurezza”. Certo, le domande sorgono spontanee: di quale sicurezza si parla? E della sicurezza di chi e cosa?
Giustificare tutto dietro lo spettro degli sviluppi sociali secondo cui ogni ultimo è vittima di un sistema politico criminale, a parer mio, altro non rappresenta che una conclusione estremamente facile, insufficiente e menefreghista. Non è sempre così: c’è anche chi quella vita la sceglie in piena libertà. Altrettanto, però, marginalizzare e rendere invisibili, attraverso l’istallazione di barriere, coloro i quali cercano convivialità e socialità, altro non produce che tanti ennesimi “clandestini urbani” che serviranno solo a produrre maggiore speculazione e profitto a vantaggio delle élites statali e finanziarie. La lotta contro quei tornelli al 36 pertanto, non è lotta contro quegli specifici tornelli, ma può e deve essere letta alla luce di quelle che sono lotte che da mesi ormai accompagnano la rivendicazione del diritto alla migrazione contro tutte le frontiere.
Certo, il fine caratterizzante di questa lotta è quello del libero accesso il diritto ai saperi, alla conoscenza, alla cultura, ma l’ottica, i metodi, i mezzi, sono quelli che vogliono l’eliminazione di ogni singola frontiera escludente e legalizzata. Non è difficile infatti notare come le motivazioni prese a fondamenta delle posizioni di coloro i quali trovano nei tornelli l’idea di un’università “sicura”, sono le stesse che sostengono l’innalzamento dei muri e la costruzione della cosiddetta fortezza Europa.
L’imposizione dei confini, di ogni confine, è ciò che normalizza la distinzione tra regolare e irregolare, tra legale e illegale: se il confine statale istituzionalizza l’idea del reato di clandestinità, producendo così milioni di soggetti portatori essi stessi di illegalità in quanto viene loro affibbiato uno status, il tornello al 36 riproduce, geograficamente e numericamente in modo più ristretto, il medesimo disegno di controllo che vuole da un lato il soggetto regolare a cui viene riconosciuto il diritto ad entrare in biblioteca, dall’altro il soggetto irregolare a cui l’accesso viene negato. Così il rilascio del documento, il permesso di soggiorno e ovviamente il badge, regolarizzano il soggetto concedendogli il diritto all’accesso, a travalicare quel confine che, con la lotta che si sta costruendo, è stato sradicato e di cui non si vuole concedere l’istallazione.
Pertanto, la lotta contro quei tornelli al 36, rappresenta in realtà la rivendicazione di una società aperta, multiculturale, libera, plurale e meticcia.
In altre parole, la distanza tra il sostrato culturale che porta a lottare contro la privatizzazione dei saperi, della cultura e delle università, e quello che spinge alla lotta contro la creazione di confini e il respingimento dei migranti in viaggio, è essere estremamente labile e permeabile perché entrambi mirano ad abbattere quelle frontiere la cui violenta portata non si esaurisce nella loro stessa creazione, implicando sempre l’esclusione dei soggetti ai margini della società, la loro separazione da coloro che hanno la possibilità di acquistare, pagandolo, il diritto all’accesso.
In questo assetto, l’atteggiamento del PD, organizzazione di per sé padronale e autoritaria, nei confronti delle istanze universitarie e delle relative lotte di piazza bolognesi, è pienamente in linea con quella che è l’idea del controllo sociale delle migrazioni in Italia e in Europa. Il PD infatti, nel sostenere la spedizione poliziesca all’interno del 36, fa il copia e incolla dell’architettura governativa e legislativa volta alla definitiva creazione di quella discriminante politica di contrasto e respingimento delle migrazioni giuridicamente irregolari. Così, dunque, il cosiddetto Sistema Europeo Comune di Asilo (CEAS) appoggiato dal PD, il sistema degli Hotspot fortemente voluto dal governo Renzi, e il più recente decreto legge sulle migrazioni del governo Gentiloni in via di definitiva approvazione, sono soltanto l’estremizzazione delle frontiere che quotidianamente vengono poste in essere a livello cittadino. Invero, quei tornelli al 36 obbediscono esattamente alla stessa logica di quelle misure come appunto il CEAS, gli Hotspot e l’ultimo decreto legge secondo cui la sicurezza sociale passerebbe per il controllo dei movimenti e degli ingressi. Ed è per questo che lottare contro l’istallazione dei tornelli al 36 non significa solo non volere quegli specifici tornelli, quelle specifiche frontiere, ma rappresenta più in generale una delle necessarie componenti dell’idea di società libera che si vuole realizzare.
Nicholas Tomeo